E’ dal 1921 che la Galleria d’Arte Moderna ha sede nella splendida Villa Belgiojoso, uno dei capolavori del Neoclassicismo di Milano. Realizzata tra il 1790 e il 1796 come residenza del conte Lodovico Barbiano di Belgiojoso, fu progettata con eleganza e funzionalità dall’architetto austriaco Leopoldo Pollack, collaboratore del massimo rappresentante del Neoclassicismo lombardo, Giuseppe Piermarini, al quale l’edificio era stato originariamente commissionato.
La Villa è una costruzione a tre piani avente due ali avanzate più basse che abbracciano la corte d’onore. Si distinguono due facciate: la prima, ingresso dell’attuale museo, accoglie al centro del pianterreno tre archi bugnati sormontati da quattro colonne ioniche che proseguono visivamente e culminano nelle quattro sculture della balaustra.
La seconda facciata, nascosta alla vista perché proiettata sul giardino retrostante, recupera lo schema frontale e lo ripropone in tre moduli aggettanti che, insieme ai timpani classici, danno movimento e plasticità all’edificio.
La scansione razionale delle superfici, la semplicità delle partiture architettoniche e la presenza di bassorilievi in terracotta conferiscono alla Villa la sua inconfondibile eleganza, memore della sapienza piermariniana e ben rappresentativa dell’estetica neoclassica. L’apparato decorativo, composto da un elevato numero di statue e rilievi di soggetto mitologico, è progettato dal poeta Giuseppe Parini e scolpito dalle sapienti maestranze che operano, negli stessi anni, alla facciata del Duomo.
All’interno il piano terra è decorato dagli estrosi motivi ornamentali tardo-settecenteschi di Giocondo Albertolli, già collaboratore del Piermarini nei progetti decorativi di Palazzo Reale e di Villa Reale a Monza. La decorazione del primo piano è invece dei primi decenni dell’Ottocento e rappresenta il cambiamento di gusto nell’epoca napoleonica culminante nel Parnaso, celebre affresco di Andrea Appiani.
Il giardino all’inglese della Villa, il primo di questo tipo a Milano, è una delle ragioni di maggiore ammirazione e novità per i visitatori contemporanei sin dalla sua realizzazione alla fine del XVIII secolo. Il giardino, di carattere “pittoresco”, ricrea un paesaggio naturale dove la vegetazione, riappropriandosi delle vestigia della storia, lascia affiorare antiche rovine.
Al centro, il laghetto è disegnato in modo da non consentire mai una sua visione unitaria, così da suggestionare l’immaginazione dell’osservatore, mentre le forme naturali e romantiche del giardino si integrano perfettamente con il carattere classico e razionale dell’edificio, esaltandosi a vicenda.
Nel 1804 la Villa passa nelle mani del governo francese come residenza milanese di Napoleone prendendone anche il nome, Villa Bonaparte, e diventando sontuoso scenario di pranzi e feste da ballo. Dopo l’Unità d’Italia la Villa viene assegnata alla Corona d’Italia ed entra in un lungo periodo di relativo abbandono. È solo grazie al passaggio al Demanio comunale, nel 1920, che si dà avvio all’importante trasformazione dell’edificio storico destinato ad accogliere le collezioni d’arte moderna che si possono ammirare oggi.
Nelle belle sale storiche della Villa trovano oggi posto circa ottocento dipinti e sculture, oltre alle duemila opere ricoverate nei depositi, le sculture nei sotterranei e i dipinti negli spazi del sottotetto dove, dal 1956, è anche allestita ed esposta la preziosa collezione Grassi con le sue duecento opere di materiali e tipologie diverse.
Le collezioni del museo sono molto note internazionalmente perché costituiscono un unicum nel panorama artistico dell’Ottocento che trova nella Galleria d’Arte Moderna, la memoria del passaggio dalla società nobiliare, e delle sue forme di committenza, alla moderna borghesia in ascesa nella città industriale alla quale si rivolgeva un libero mercato di opere d’arte. I mutamenti radicali che vedono la trasformazione della pittura e della scultura a seguire le diverse rivoluzioni sociali in atto tra la fine del Settecento e l’inizio del Novecento, sono ampiamente rappresentati dalle opere in collezione che attraversano due secoli di storia italiana, dai fasti di Appiani, attraverso il Romanticismo, fino ai prodromi della modernità rappresentata dai grandi artisti precursori delle avanguardie del Novecento: Segantini, Pellizza, Previati e Rosso.
Di seguito le nostre foto di alcuni dei lavori più rappresentativi: Francesco Hayez, Andrea Appiani, Tranquillo Cremona, Giovanni Segantini, Giovanni Fattori, Giuseppe Pellizza da Volpedo, Antonio Canova, Medardo Rosso, Gaetano Previati. Sono questi solo alcuni tra i nomi dei grandi artisti presenti, protagonisti indiscussi della Storia dell’Arte milanese e italiana. Capolavori del XIX e del XX secolo che, grazie anche al collezionismo privato e alle donazioni di alcune importanti famiglie – in primis Grassi e Vismara – negli anni hanno arricchito ulteriormente il patrimonio artistico della Galleria proveniente dalle Raccolte Civiche milanesi, includendo fra gli altri i lavori di artisti come Vincent Van Gogh, Paul Cézanne, Pablo Picasso.
1 – “Masaniello” di Alessandro Puttinati (1846)
L’artista Alessandro Puttinati unisce classicismo a romanticismo nella scultura in marmo “Masaniello”. L’eroe napoletano urla e incita il popolo alla rivolta con sguardo fiero e corrucciato. Il Masaniello di Alessandro Puttinati venne sottoposto a censura dagli austriaci in quanto portatore di una chiara valenza politica. La censura però non impedì a quest’opera di diventare famosa tra tutti i contemporanei, infatti Io scultore riuscì a elevare la figura del pescatore rivoltoso a una sfera grandiosa, facendolo diventare così un chiaro simbolo rivoluzionario.
2 – “Napoleone Bonaparte al combattimento del ponte di Lodi” di Andrea Appiani (1800-1801 c.)
Andrea Appiani è ricordato soprattutto come “pittore di Napoleone”, insuperato decantatore delle glorie e dei fasti del Bonaparte e della sua corte.
Tra il 1800 e il 1807, il “Primo Pittore” del Regno esegue il suo ciclo più famoso: i “Fasti di Napoleone”, una serie di trentacinque tempere che illustrava le imprese napoleoniche.
Di questo ciclo, purtroppo perduto, GAM conserva il modelletto a monocromo in scala 1:1 che prepara uno dei tre episodi del “Combattimento al ponte di Lodi”.
3 – “Il Parnaso” di Andrea Appiani (1811)
L’opera fu realizzata in meno di due mesi nel 1811 e rappresenta il dio Apollo circondato dalle muse sul monte parnaso, un tema iconografico già trattato da grandi artisti. La composizione fu pensata seguendo i consigli del grecista Luigi Lamberti. Quest’ultimo affermò che l’opera di Appiani, al contrario delle precedenti scene realizzate da Mengs e Raffello, è più vicina allo spirito della poesia antica. Le novità di quest’opera si concentrano nelle figure delle muse, le quali sono al contempo rappresentazione delle arti e dei moti dell’animo.
4 – “Ebe” di Antonio Canova (1796)
Figlia di Zeus ed Era, nella mitologia greca Ebe era divinità della giovinezza e coppiera degli dei. Canova la rappresenta come una giovinetta seminuda mentre scende su una nuvola dell’Olimpo mescendo nettare. Le proporzioni armoniose del corpo, la perfezione del volto e la calma dei gesti mostrano chiaramente l’ispirazione alla scultura antica. Conservato nello studio dello scultore Pompeo Marchesi e da questi donato alla città, il gesso è andato in pezzi a seguito dell’attentato di via Palestro del 1993, ed è quindi stato restaurato e ricomposto.
5 – “Gustavo Adolfo re di Svezia prima di partire per la guerra di religione riceve dall’assemblea degli stati generali giuramento di fedeltà alla propria figlia Cristina” di Pelagio Pelagi (ante 1824)
6 – “Venere” di Pompeo Marchesi (1855)
Pompeo Marchesi è considerato l’erede lombardo della scultura di Antonio Canova, a cui si riferì sempre nell’arco della sua lunga carriera artistica, attraverso rimandi e citazioni ideali che evocavano alcune delle opere più riuscite del maestro veneto. I due si conobbero e frequentarono durante gli anni del pensionato romano: tra il 1804 e il 1808 proprio negli anni in cui il giovane artista comasco soggiornava a Roma, Canova realizzò «Paolina Borghese come Venere Vincitrice», da cui Marchesi trasse ispirazione per l’iconografia della sua Venere. Quest’opera tarda conosciuta anche come «Venere erotica», è una delle varianti della «Venere pudica» del 1826, dalla quale si distingue per la posa e l’atteggiamento più provocante.
7 – “Busto del conte Antonio Durini” di Paolo Troubetzkoy (1900 c.)
8 – “Flora” di Vincenzo Vela (1882)
Statua a tutto tondo su piedistallo. Figura mitologica nuda che si sta ponendo una ghirlanda di fiori sul capo. Fiori anche dal piedestallo alle gambe
9 – “Ritratto della contessa Antonietta Negroni Prati Morosini” di Francesco Hayez (1871/2)
Questa tela, capolavoro tardo della ritrattistica hayeziana, mostra la contessa Antonietta Negroni Prati Morosini, che quattordici anni prima Hayez aveva ritratto bambina in un dipinto esposto oggi nella stessa sala della Galleria d’Arte Moderna. Antonietta, figlia primogenita di Giuseppina Negroni Prati Morosini ─ amica di Hayez ─ aveva ricevuto dall’artista i primi rudimenti di pittura, assieme alla sorella minore Luigia. La ragazza è ritratta in un’ambientazione raccolta e domestica, dominata dalla grande sedia caratterizzata dai toni caldi del legno dorato e della seta gialla. Antonietta porta una veste azzurra riccamente decorata e sfiora appena la rosa sciupata poggiata in grembo che allude al trascorrere inesorabile del tempo.
10 – “Il quarto stato” di Giuseppe Pellizza da Volpedo (1901)
Pellizza incominciò a lavorare a un bozzetto degli Ambasciatori della fame nel 1891, dopo aver assistito a una manifestazione di protesta di un gruppo di operai. L’artista rimase molto impressionato dalla scena, tanto che annotò nel suo diario: «La questione sociale s’impone; molti si son dedicati ad essa e studiano alacremente per risolverla. Anche l’arte non dev’essere estranea a questo movimento verso una meta che è ancora un’incognita ma che pure si intuisce dover essere migliore a patto delle condizioni presenti».
11 – “Idillio campestre nei prati della pieve a Volpedo (Il girotondo)” di Giuseppe Pellizza da Volpedo (1906 c.)
Questo dipinto è la seconda versione, lasciata incompiuta da Pellizza da Volpedo e completata dal pittore Angelo Barabino, di un’altra tela, per lungo tempo ritenuta perduta e ricomparsa ad un’asta (Londra, Sotheby’s, 1980) dopo essere stata conservata in una collezione privata inglese per circa quaranta anni.
Per l’impianto compositivo l’artista si era ispirato ad una fortunata opera del Seicento, la Danza degli Amorini di Francesco Albani, conservata a Milano presso la Pinacoteca di Brera, calando però la scena nella realtà naturale di Volpedo, e precisamente nei prati adiacenti la sua dimora di famiglia.
12 – “La gondola di Tiziano” di Federico Faruffini (1861)
Qui il pittore raffigura il passaggio di una gondola con a bordo il celebre Tiziano, in compagnia della figlia Lavinia e dell’allieva Irene di Spilimbergo. Intorno a loro alcuni personaggi si sporgono dal parapetto per ammirare l’ormai anziano pittore che attira anche l’attenzione di un bambino che a fatica spunta dal muretto. Gamme cromatiche più fredde e lucenti restituiscono la luce lagunare.
13 – “Donna che legge” di Pietro Magni (1864 c.)
La prima versione dell’opera fu esposta a Brera nel 1856; dalla consultazione del catalogo del 1864, sappiamo che il Magni esponeva due repliche per due committenti di Londra ed un’altra simile “per commissione del R. Ministero della Pubblica Istruzione, che la destinò in dono a questa R. Acc. di Belle Arti”. L’esemplare in questione può dunque essere identificato con quest’ultima variante. Un’ulteriore versione è conservata in collezione privata a Bergamo.
14 – “La morte della figlia del Tintoretto” di Eleuterio Pagliano (1861)
15 – “Jan Hus in carcere” di Enrico Gamba (1858)
Jan Hus fu un teologo e un riformatore religioso boemo, nonché rettore all’Università Carolina di Praga. Promosse un movimento religioso basato sulle idee di John Wycliffe e i suoi seguaci divennero noti come Hussiti. Scomunicato nel 1411 dalla Chiesa cattolica e condannato dal Concilio di Costanza, fu bruciato sul rogo.
16 – “Paolo e Francesca” di Alessandro Puttinati (1863)
17 – “Jean d’Aire” di Auguste Rodin (post 1895)
Il piccolo bronzo è una fusione a dimensioni ridotte di una delle sei grandi figure che costituiscono il monumento ai Borghesi di Calais, affidato ad Auguste Rodin dal municipio della città francese nel 1884 e messo in posa nel 1895. Jean d’Aire è uno dei sei borghesi della città, capitanati da Eustache de Saint-Pierre, i quali nel 1347, durante la guerra dei Cento Anni, offrirono agli assedianti inglesi le chiavi della città e le proprie vite, in cambio della salvezza dei cittadini. Il sovrano britannico, Edoardo III, impressionato da questo gesto patriottico, risparmiò loro la vita. La figura di Jean d’Aire è distante dal titanismo e dal gigantismo del Rodin più universalmente noto, ma è ugualmente possibile cogliere in essa l’approccio innovativo e tormentato dello scultore nei confronti della materia, e la sua sperimentazione sul corpo, che in questo caso impone alla figura colta nel gesto di recare in mano le chiavi della città un estremo, quasi innaturale, irrigidimento.
18 – “Le due madri” di Giovanni Segantini (1889)
Presentata alla prima Triennale milanese del 1891, accanto a Maternità di Gaetano Previati, Le due madri è una delle opere più celebri e discusse di Segantini e sancì l’affermazione del nuovo rivoluzionario movimento della tecnica divisionista. Questa scena di genere, solo apparentemente tradizionale, costituisce il primo passo di Segantini verso una pittura cosiddetta di idee in cui la donna con il bambino e la mucca con il vitello sono elevate a simbolo universale della maternità. L’effetto studiato della luce artificiale, nella stalla illuminata dalla lanterna, conferisce all’umile episodio un’intensità che solo la tecnica divisionista poteva raggiungere. Basata su una profonda e sentita osservazione veristica, la scena è resa mediante filamentose pennellate di colore diviso con applicazione del colore puro direttamente sulla tela. L’effetto finale è un’opera il cui significato va oltre l’apparenza del reale, aspirando a essere immagine universale dell’origine della vita.
19 – “Trasparenze alpine” di Emilio Longoni (1910)
Con il progressivo affermarsi dell’alpinismo moderno, nel primo decennio del ‘900 aumenta la frequenza dei soggiorni di Longoni tra le vette alpine. Vengono preferiti luoghi quali ghiacciai e piccoli laghi disseminati sulle alture, per lo studio della rifrazione della luce sul ghiaccio o della scomposizione cromatica dei cieli riflessi nelle limpide acque di montagna. In questo dipinto, lo specchio d’acqua viene rappresentato come un sottile diaframma tra cielo e terra.
20 – “Alle cucine economiche di Porta Nuova” di Attilio Pusterla (1887)
Nel clima verista di fine Ottocento l’artista identifica nella mensa dei poveri il luogo in cui si raggruppa, senza fronzoli e ipocrisie, l’umanità sofferente ai margini della società industriale. La vastità dell’ambiente serve a porre in evidenza la condizione di solitudine nella moltitudine.
21 – “La stazione centrale di Milano nel 1889” di Angelo Morbelli (1889)
Il soggetto del dipinto è la stazione di Milano, quella costruita da Louis-Jules Bouchot (1817-1907) nel 1864 nell’attuale piazza della Repubblica e ora scomparsa. Un treno entra sbuffando sotto il grande arco di ferro e vetro seguendo le sottili linee nere delle rotaie che creano un elegante arabesco in primo piano. Viene automatica l’associazione con Claude Monet e la sua Gare Saint-Lazare, ma in realtà il rimando è solo tematico: è infatti improbabile che Morbelli conoscesse l’opera di Monet. A ben guardare, le differenze esecutive tra le due opere sono infatti notevoli, a partire dal fatto che la stazione di Morbelli non è stata ritratta en plein air, bensì utilizzando un cianotipo fotografico ancora oggi conservato presso gli eredi dell’artista.
22 – “Scugnizzo” di Medardo Rosso (1895)
Gavroche il titolo in francese della piccola scultura di Medardo Rosso. Facendo riferimento al mondo della letteratura, Gavroche è il nome di un monello di strada, descritto nel romanzo I Miserabili di Victor Hugo. L’adolescente è scaltro e smaliziato e si muove con grande sicurezza nei bassifondi di Parigi dove vive.
23 – “Gioia” di Emilio Quadrelli (1906)
24 – “Vir Temporis Acti (Uomo antico)” di Adolfo Wildt (1914)
Nel 1911 Adolfo Wildt è uno scultore impegnato nel recupero della scultura antica. Una delle sue opere di quel periodo, purtroppo perduta, è Vir Temporis acti, l’uomo del tempo passato: una figura di soldato che si percuote con lo staffile, simbolo del dolore autoinflitto, e della redenzione e nobiltà del sacrificio. Da quel marmo, andato distrutto durante la seconda guerra mondiale, Wildt isola e replica più volte, come nella scultura conservata alla Galleria d’Arte Moderna, il solo dettaglio del volto, rendendo ancor più intensa la rappresentazione del dolore, insieme remotamente arcaico e assolutamente moderno.
25 – “Madonna dei gigli” di Gaetano Previati (1893/4)
Quest’opera, originariamente intitolata Madonna, venne presentata alla II Triennale di Brera del 1894 come manifesto della nuova poetica simbolista. L’opera presenta la visione celestiale di una madre con bambino immersi in un campo di gigli, tradizionale simbolo di purezza. La tecnica divisionista è caricata di nuove valenze religiose e spirituali di matrice preraffaellita che emergono ad esempio nei vibranti tocchi di colore che suggeriscono l’aureola della Vergine. Se nei gigli l’andamento delle pennellate è verticale, per contrasto la veste della Vergine è definita da tratteggi ad andamento orizzontale.
26 – “Cavalleggero” di Giovanni Fattori (1890 c.)
Scriveva l’artista: “Il ’59 e il ’66 mi entusiasmai per la redenzione d’Italia che suscitò in me i migliori sentimenti innamorandomi dei fatti d’arme. Studiai la vita militare e illustrai i principali fatti d’arme… I francesi passando per la Toscana mi dettero agio di studiarli minutamente da vicino”
E se i soldati d’un tratto non facessero più parte di un immaginario bellico e dunque mitico? Fattori nella sua lunga carriera dipingerà spesso soggetti militari, privandoli tuttavia di quell’alone eroico a cui siamo sempre stati abituati. I suoi quadri sono abitati da soldati che camminano per le campagne in sella ai loro cavalli, soldati che pensano e che si riposano nei paesaggi della Maremma. A volte è quasi possibile sentire il rumore degli zoccoli sul selciato o sulla polvere e le staffe che si infrangono sulle briglie di un meriggio caldo e soleggiato.
27 – “Grandi manovre” di Giovanni Fattori (1880/5)
28 – “Figura femminile seduta” di Giacomo Favretto (1883)
29 – “L’americana” di Giovanni Boldini (1900/3 c.)
La tecnica del pastello permette al pittore di smaterializzare l’abito di lei e lo spazio tutto intorno. Solo il volto della donna, seduta su un morbido canapè, è ben definito.
Quest’opera è anche testimonianza della fama raggiunta in America da parte del pittore della Belle Époque, dove venne accolto ed elogiato attraverso numerose committenze ed esposizioni.
30 – “Pranzo a Posillipo” di Giuseppe De Nittis (1879 c.)
L’opera immortala una festosa serata che Giuseppe De Nittis trascorse, tra la fine del 1878 e la primavera del 1879, durante il suo soggiorno a Napoli. Dallo sfondo si evince che si tratta di Napoli, vi si individuano infatti capo Posillipo e Palazzo Donn’Anna. Inoltre, il pittore Edoardo Dalbono riferisce degli incontri che si tenevano tra De Nittis e altri amici pittori in una terrazza sul Golfo: serate in cui alle conversazioni sull’arte si aggiungevano i canti accompagnati dalla chitarra. Sappiamo che il dipinto, incompiuto e considerato all’epoca secondario nella produzione del pittore, fu portato da De Nittis a Parigi e rimase quindi nel suo atelier fino alla sua morte quando fu ereditato dalla vedova Léontine.
31 – “Dame a l’Ulster” di Giuseppe De Nittis (1881)
Questo grande pastello su carta (150×89) raffigura una donna elegante con indosso un Ulster (tipico cappotto irlandese). Sullo sfondo la campagna irlandese in un trionfo di luci e di colori.
32 – “Il sole” di Giuseppe Pellizza da Volpedo (1904)
In questa poetica rappresentazione della natura, Pellizza da Volpedo – Esponente del movimento divisionista, si pone il problema di rendere il controluce dovuto al sole che tramonta. Qui il terreno si presenta di colore scuro per via dei tratti di colore puro mentre il cielo viene rischiarato da filamenti di colore giallo.
33 – “Ragazzi” di Antonio Mancini (1875/83)
Un’opera curiosa di Antonio Mancini è la tela dipinta su ambo i lati in cui il pittore abbozza da una parte un suo autoritratto giovanile e dall’altra due ragazzi nelle vesti popolari di ciociari. Questi ultimi sono da datarsi verosimilmente ai primi Anni ’80 dell’Ottocento quando il pittore si è ormai trasferito stabilmente a Roma, presso gli zii, in Corso di Porta Pinciana. In questi anni Mancini esplora temi nuovi, impiegando come modelli i cuginetti Telemaco, Agrippina e Alfredo, concentrandosi soprattutto sulla figura che costruisce tutta con il colore.
34 – “Alberi e costruzioni” di Armando Spadini (1919)
Questo piccolo studio preparatorio, realizzato da Armando Spadini nel 1919, prepara quella che sarà la versione definitiva intitolata Alberi in primavera. Il dipinto risente di influenze degli impressionisti francesi per la resa della luce e il tipo di pennellata. Nella vivacità dei colori, invece, è evidente una suggestione fauve.
35 – “Divano giapponese (manifesto)” di Henri de Toulouse Lautrec (1892/3)
Tra le figure più significative dell’arte del tardo Ottocento, spicca quella di Toulouse-Lautrec. Un pittore di grande talento che si dedicò anche alla pubblicità, con una originale produzione che rientra nei canoni dell’art nouveau. Le strade di Montmartre della Parigi moderna e mondana ospitavano le famose, e desiderate, affiche di questo artista. Cantanti, ballerine e attrici chiedevano proprio a Toulouse-Lautrec di creare litografie per i propri spettacoli, e così facevano anche i Cafè. Questa litografia a pennello a quattro colori fu commissionata dal Cafè “Divan Japonais” per i propri spettacoli. Questo cafè, seguendo la moda imperante del japonisme, decorò il proprio interno con decorazioni orientali dalle quali prende il nome. Protagonista dell’opera grafica è Jane Avril, famosa ballerina di can-can, e una delle muse più presenti nel corpus di opere dell’artista.
36 – “I Bretoni e il perdono a Pont Aven” di Vincent Van Gogh (1888 c.)
Opera realizzata da Van Gogh durante il suo soggiorno ad Arles, iniziato nella primavera del 1888. Il 23 ottobre del medesimo anno fu raggiunto da Paul Gauguin, il quale si fermò in Provenza per nove settimane.Questo acquerello e matita su carta Ingres è una lucida copia del quadro di Émile Bernard “Le Pardon à Pont-Aven” , che fu donato dall’artista all’amico Paul Gauguin, con il quale aveva soggiornato in Bretagna nell’estate del 1888.
37 – “Paesaggio in Normandia” di Paul Gauguin (1885)
Il dipinto appare molto coerente con le logiche cromatiche dei quadri impressionisti, lontano quindi dalle soluzioni sintetiste a cui il pittore arriverà nel suo soggiorno caraibico e poi polinesiano.
In questi anni è molto presente in Gauguin la ricerca di una terra incontaminata e fedele al proprio spirito, un luogo capace di dare al pittore parigino quella tranquillità e quel sollievo immateriale di cui tanto sentiva la necessità.
38 – “Ritratto di Michel Arnaud a cavallo” di Édouard Manet (1875)
Nei primi anni Settanta dell’Ottocento Manet si cimentò con il genere del ritratto equestre. Il risultato fu un gruppo abbastanza omogeneo di opere, tra cui quello del signor Arnaud. Michel Arnaud era un imprenditore parigino, collezionista occasionale di dipinti impressionisti e grande appassionato d’equitazione, motivo per cui probabilmente Manet lo ritrasse in sella al suo destriero. Non sappiamo quali rapporti intercorressero tra l’effigiato e l’artista, ma è probabile che si siano conosciuti nel 1875, anno di realizzazione del dipinto. Il dipinto, rimasto incompiuto ─ una foto d’epoca ci mostra infatti come il paesaggio fosse lasciato allo stato di abbozzo e le zampe del cavallo appena suggerite ─ fu custodito nell’atelier dell’artista fino alla sua morte. Acquistato dal pittore Max Liebermann (1847 – 1935), si ipotizza che fu proprio quest’ultimo a intervenire sul dipinto, completando il quadro e apponendo una firma fittizia.
39 – “I ladri e l’asino” di Paul Cézanne (1869/70 c.)
Il dipinto appartiene alla fase giovanile di Paul Cézanne e fu eseguito intorno al 1870 probabilmente ad Aix-en-Provence. Se Il titolo dell’opera è ispirato alla favola di La Fontaine, il soggetto del dipinto è tratto da Le Metamorfosi di Apuleio. La scena raffigura il momento in cui Lucio, trasformato in asino, è liberato dai suoi rapitori grazie all’intervento del fidanzato di Fotide, una giovane ancella che nel corso della narrazione cerca ripetutamente di riportare il giovane alla forma umana. L’azione si svolge su di una scogliera a strapiombo sul mare: al centro della scena si trova solitario l’asino, in primo piano sulla destra si trova un giovane uomo dall’identità ignota, forse un contadino o un cacciatore, mentre a sinistra alcuni uomini si azzuffano. Sullo sfondo, oltre l’asino, due personaggi, uno dei quali fuma placidamente, assistono distrattamente agli avvenimenti. C’è chi ha individuato nel gruppo sulla sinistra i ladri, chi ha riconosciuto nel giovane in primo piano il salvatore di Lucio ma l’iconografia resta ancora per molti versi di difficile decifrazione.
40 – “Ritratto di signora” di Berthe Morisot (1880 c.)
Poche furono le pittrici appartenenti al movimento impressionista francese, una di queste fu Berthe Morisot.
Le sue tele, ampliamente lodate sia all’interno che all’esterno della cerchia degli impressionisti, sono caratterizzate da tocchi realizzati con estrema leggerezza capaci di rendere perfettamente lo scorrere del tempo della vita intorno a lei. Qui un ritratto di nobildonna, dato che possiamo desumere dalla ricchezza dell’abito indossato. Il fondo uniforme e indefinito, giocato sulle tonalità del verde e del rosa, colori dominanti della tela, fa emergere la figura femminile costituita da pennellate corpose e cariche di pigmenti.
41 – “Ritratto della signora Casanova” di Umberto Boccioni (1911)
I critici hanno inizialmente datato l’opera al 1916, riconoscendo nella donna ritratta la contessa Casanova, che ospitò Boccioni a Pallanza, sul Lago Maggiore, luogo di villeggiatura per le classi sociali più abbienti ad inizio Novecento. Tuttavia la critica successiva, a partire dalla metà degli anni Sessanta, ritenne di dover anticipare la data di creazione dell’opera al 1911. La scelta di una tavolozza vivace, di matrice fortemente espressionista, e la stesura del colore per tacche, corrisponderebbero infatti ad una fase precedente della ritrattistica di Boccioni.
Nell’estate 1916 Boccioni si trovava a tempi alterni a Milano e Pallanza, quando ricevette la notizia di essere “stato fatto abile” ed essere “stato assegnato all’Art. da Campagna!” Prima di partire per la guerra, che gli sarà fatale quello stesso anno a causa di una caduta da cavallo, avrà modo di trascorrere parecchio tempo con i marchesi Della Valle di Casanova e con Vittoria Colonna Principessa di Teano. Proprio sulle sponde del lago, dove l’artista si dedica alla produzione di alcune opere, fra i due nascerà uno stretto rapporto, che verrà stroncato nell’agosto con la morte di Boccioni.
42 – “Bambina x balcone” di Giacomo Balla (1912)
Il dipinto, che ritrae la figlia maggiore Luce mentre corre sul balcone di casa Balla, segna la svolta futurista di Giacomo Balla. Lo studio del movimento è al centro della ricerca di questi mesi e in particolare il “moto organico” ovvero la resa del movimento di un corpo. La sensazione del movimento è resa grazie alla sequenza dei passi della bambina, con una conseguente ripetizione della figura con un andamento da sinistra verso destra e con la compenetrazione della ringhiera, unico elemento ambientale. La pennellata a tacche permette all’artista di liberarsi dalla linea di contorno, così che la composizione risulti effettuata solo con l’accostamento dei diversi tasselli di colore.
43 – “Uomo che dorme” di Renato Guttuso (1938)
44 – Il “Paesaggio di Gers” di Filippo De Pisis (1936)
L’opera rappresenta una veduta della proprietà francese del fratello Pietro, mediante un taglio compositivo ordinato e un’alternanza tra la pittura sincopata e a tratti interrotta, cifra stilistica dell’artista, e pennellate larghe e morbide nella parte superiore. Testimonianze dei periodi trascorsi nel Gers si ritrovano sia in una lettera dell’artista all’amico Giovanni Comisso, sia nelle memorie del fratello Pietro, “Mio fratello De Pisis”.
45 – “Natura morta con straccio giallo” di Giorgio Morandi (1952)
Il quadro fa parte della collezione Vismara e di un gruppo di dieci opere dipinte da Morandi nel 1952 aventi al centro della composizione un panno giallo. A differenza di altre opere di Morandi questa natura morta mantiene l’individualità dei singoli oggetti; essi si presentano con maggiore fisicità e i loro contorni sono ben delineati da delle sottili ombre che accompagnano i profili delle forme. La quasi totale assenza di luce e la tonalità fredda su cui è impostata la cromia della tela fa sì che l’unico contrasto sia quello tra lo straccio giallo e il vaso verde al centro del quadro, un particolare che catalizza immediatamente l’attenzione dello spettatore.
46 – “L’Oracolo” di Mario Sironi (1952)
“Se si provasse a misurare questi segni si scoprirebbe che i volumi delle varie parti costituiscono un ritmo, un ritmo che si può misurare su quantità istintive che abbiamo in noi e che sono indipendenti da convenzioni scolastiche.” Così Sironi commentava all’inizio degli anni Cinquanta le proprie opere coeve. In quegli anni infatti l’artista tendeva a ripartire le tele in ulteriori riquadri, organizzando i volumi della composizione e svelando la personale vocazione per lo spazio. Sono queste divisioni interne alle opere ad esaltare i pieni e i vuoti, in un gioco di ritmi che Sironi stesso sottolinea e che pone in evidenza i soggetti dipinti.
47 – “Bacino di San Marco” di Carlo Carrà (1932)
48″Testa di donna” di Pablo Picasso (1957)
La “Tête de femme”, acquistata nel 1959 da Giuseppe Vismara, mostra grandi affinità con la produzione scultorea dell’artista nel 1957. In quel momento, Picasso realizza una serie di lavori con lamiere, legno e resine sui quali interviene pittoricamente: a questa produzione si affiancano alcuni dipinti che riproducono le dinamiche costruttive dei ritratti di Jacqueline, la moglie, in scultura. Questo dipinto mostra infatti l’incastro bidimensionale delle lastre che compongono una scultura, della quale è riprodotto anche il piedistallo.
49 – “Paesaggio marino a Cherbourg” di Henri Matisse (1918)
Questa veduta del porto di Cherbourg, dove Matisse era solito recarsi, appartiene a una serie di opere, databili per lo più al 1918, in cui l’artista francese, mettendo da parte lo studio della figura umana, si dedica insolitamente alla rappresentazione del paesaggio. Rispetto ad altre prove simili, l’olio su cartone della Collezione Vismara presenta colori meno cupi e una pennellata più rapida, suggerendo una ritrova serenità. In quegli anni infatti la malattia del figlio lo costrinse a recarsi con frequenza nella cittadina marittima.
Appartenuta alla collezione della figlia del pittore, Marguerite Durthuit-Matisse, l’opera fu acquistata da Giuseppe Vismara nel 1957 e donata alla Galleria d’Arte Moderna di Milano.
50 – “Taureau (Toro)” di Pablo Picasso (1955)
Pablo Picasso aveva compiuto la prima visita presso il laboratorio ceramico Madoura a Vallauris nel 1936, in compagnia del poeta Paul Eluard rimanendo affascinato dalla lavorazione della ceramica. A partire dal 1946 Picasso comincia a lavorare a Vallauris, interessandosi a tutto il procedimento di creazione delle opere in terracotta, dal disegno, alla progettazione delle forme, fino alla decorazione finale.
La forma del toro ben si adatta a quella del contenitore, Picasso sfrutta la superficie curva della giara e le sue caratteristiche per farle corrispondere a quelle del disegno: la coda si identifica con l’ansa, il globo è il corpo massiccio del toro stesso, mentre sul collo del vaso è posto l’elemento delle banderillas. La presenza delle aste munite di bandierine con cui il toro è infilzato durante le corride vuole indicare che l’iconografia a cui si ispira l’opera è quella della tauromachia (lotta contro il toro).